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Da non credere, siamo alle porte della decima edizione! Avviata per gioco, l'iniziativa ha preso piede quanto basta per essere gestibile dalle davvero modeste forze in campo. Il Premio Borgo, che ha undici anni contro le nove edizioni già realizzate, si prepara a fare conto pari col 2022. Risulta un premio realmente internazionale, non solo per vocazione: è stabile la presenza di lavori provenienti dall'estero, circa un cinquanta per cento, gran parte provenienti dalla Germania ma negli anni abbiamo raccolto opere di autori di altri paesi europei, sudamericani, asiatici, spesso di stanza a Berlino. Anzi, col sorriso sulle labbra c'è da dire che alcuni sostengono la sua internazionalità sia segnata dalla presenza di concorrenti milanesi! Ironie a parte, l'edizione passata ha avuto alcune novità: nuovo è stato l'ingresso dei video, con la presentazione di otto proposte, nuovo è stato il regolamento che ha permesso agli 'abituée' di essere ancora presenti ma solo dietro presentazione di un nuovo partecipante. Un'altra novità si è palesata a concorso concluso: è stata la prima volta che ha visto i due premi, della Giuria e del Pubblico, confluire su una sola opera. Il Premio Borgo, realmente gratuito per i partecipanti, con organizzazione e Giuria di esperti che prestano volontariamente i loro servizi, vede ogni passo del suo svolgimento registrato sull'omonima pagina di Facebook e sul sito de La scala d'oro/ Premio Borgo. Inoltre Eidos, questa rivista ospitale, ha raccolto e raccoglie secondo possibilità note e informazioni sull'iniziativa. erreesse
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La scala d’oro indica un sito di straordinaria bellezza nel percorso turistico di Venezia. Gli stucchi dorati decorano la scala, progettata da Sansovino, che porta verso gli appartamenti ducali. La Scala d’Oro è anche il titolo di un bellissimo dipinto preraffaellita di Edward Burne Jones del 1876 alla Tate. Diciotto fanciulle in candide vesti virginali discendono una scala a chiocciola reggendo strumenti musicali. La simbologia preraffaellita rimanda a una idea perduta di armonia, di luce e di ritmo. La Scala d’Oro è anche il titolo di una meravigliosa collana di libri per ragazzi edita dalla UTET dagli anni Trenta con circa un centinaio di volumi che divulgavano la letteratura classica. Quo Vadis, Poe, il Graal, Ivanhoe, Tolstoj, Virgilio, Verne, Hugo, Cervantes, Dickens, Swift, entravano nell’immaginario adolescenziale grazie a straordinarie illustrazioni di Gustavino, Terzi, Nicco, Mateldi e tanti altri. Illustrazioni e narrazioni vivevano nelle pagine cartacee rilegate, con le magiche copertine che, già dalle vetrine delle ormai scomparse librerie, producevano immaginari orizzonti. La collana era ideata da Vincenzo Errante grande germanista e anglista traduttore di Shakespeare, Goethe, Rilke . Fra le tre opzioni di ispirazione a La Scala d’Oro è stata scelta da Ricc Sabba quella del ricordo editoriale. Il suggerimento gli arriva dall’amico Piero Berengo Gardin, cugino del più celebre Gianni, ma altrettanto raffinato e colto fotografo e intellettuale. La Scala d’Oro di Ricc Sabba è un progetto meravigliosamente folle e poetico di animare uno spazio culturale nella Roma di oggi. Ricc Sabba ha esercitato il proprio sguardo dagli anni Settanta, trasversalmente, nei territori della fotografia, della grafica editoriale, del documentario sociale, della comunicazione pubblicitaria. Anni, quelli, nei quali si poteva operare con libertà e con creatività nella produzione commerciale come nella ricerca artistica. La dittatura dell’algoritmo e del pensiero unico prodotto dallo sguardo omologato al consumo, non era ancora dilagata col suo ritmo compulsivo degli influencers. Ricc Sabba opera come Darklight, nella ricerca fotografica, nella grafica, nella documentazione aziendale, tenendo presente la ricerca artistica come paradigma operativo. Inventa situazioni di incontro, di relazione, di sperimentazione. Fra queste il Punto Estatico a Borgo, da cui nasce il Premio Borgo insieme ad Alberto Angelini e alla rivista Eidos. Il premio è una occasione di incontro fra linguaggi artistici, e soprattutto fra persone. Con grande apertura, curiosità e disponibilità, vengono invitati artisti, non necessariamente noti, a esporre in un piccolo spazio fra libri, raccolte di riviste, collezioni di fotografie, stampe. Lo spazio culturale, piccolo e fragile presidio nel percorso turistico che devasta ormai le città, con un’alluvione di plastica e di immagini omologate, trasloca non lontano nella via Giovanni Pierluigi da Palestrina, vicina a piazza Cavour. Lo spazio nuovo, messo a disposizione dalla Chiesa Valdese, è davvero piccolo e problematico, di fatto… una scala condominiale secondaria! (continua nella colonna a destra) |
(continua dalla colonna a sinistra) Ecco l’idea geniale di Piero Berengo Gardin: perché non chiamarlo La Scala d’Oro? Sì, certamente… una iperbole! Ma una scommessa, Ricc Sabba progetta con gusto, passione e generosità, insieme ad un gruppo di amici, uno spazio culturale. La Scala d’Oro è il nome della minuscola improbabile “galleria” in forma di scala, un progetto ascensionale. La Scala d’Oro è un altro minuscolo e fragile presidio nel quartiere dei tribunali, degli studi legali, dei ristoranti, dei percorsi gourmet alla moda, degli aperitivi e delle relazioni convenzionali, frettolose, effimere. La Scala d’Oro è un presidio culturale, insieme alla libreria Claudiana e alla Facoltà Valdese di Teologia, a complemento della Chiesa Valdese edificata nel 1914, a compimento del progetto di uno stato laico, con il progetto di far diventare Roma capitale e internazionale, dopo la Esposizione Universale del 1911, che origina il nuovo quartiere Prati. La Chiesa Valdese è progettata, con un gusto neogotico anglosassone, da Emanuele Rutelli e decorata con i disegni di Paolo Paschetto, provvista anche di un importante organo. Piazza Cavour a Roma è la piazza del tribunale, il Palazzaccio, con Cavour che volta le spalle a Mazzini. Di fronte c’è il grande Teatro Adriano, un tempo luogo di concerti memorabili e di adunate politiche, oggi chiassosa multisala sfavillante di led. Si è persa la memoria di un mitico concerto dei Beatles nel 1965, come anche di un altro piccolo spazio di libertà e di poesia, il teatro Beat 72, animato da Simone Carella, che insieme al non lontano Alberichino, vide nascere fra le serate jazz, l’avanguardia teatrale romana. In quegli anni debuttavano fra i giovanissimi militanti delle sperimentazioni teatrali e poetica anche Carlo Verdone e Roberto Benigni. Que reste-t-il de tout cela? Non c’è più memoria, neanche una labile traccia. Eppure La Scala d’0ro di Ricc Sabba, va in direzione ostinata e contraria. Nel tempo dell’arte declinata allo stato gassoso del glamour, resiste come una bottega color cannella, con i suoi legni affacciati sul marciapiede. Uno spazio minuscolo, ma aperto, sulla strada, alla strada. La Scala d’Oro, con le edizioni del Premio Borgo propone titoli ossimorici e iperboli concettuali, estatici ed estetici, sorprendenti, come inciampi concettuali. Da dieci anni il premio Borgo è un luogo di apertura, di relazioni, di scambi di opinioni e di sguardi. Artisti lontani dal mondo glamour dell’arte allo stato gassoso, esercitano la propria operatività di linguaggio all’insegna di quel Grande Diletto di cui Alberto Savinio insigniva l’esercizio dell’arte come possibilità di verità. La Scala d’Oro da un decennio invita artisti, anche internazionali, a partecipare per un piccolo premio, democratico, costituito dai voti del pubblico e da una giuria di sodali. Non si vincono ricchi premi né cotillons, si dà opportunità all’opera e all’artista di incontrare il pubblico alla pari, sullo stesso piano all’insegna dello sguardo e della condivisione di un'esperienza. I temi trattati nel corso degli anni sono legati ai temi attuali, declinati come domande su, e a partire da, come occasioni di riflessioni e di sguardi. Il Corpo, Equivocando, Tra Sogno e Segno, il Doppio e l’Altro, Sguardo Futuro, Volto e Ritratti. Sono alcune delle “insegne concettuali” ideati da La Scala d’Oro . L’arte è pensata come un gioco serio che, mentendo, gioca a ri-velare la verità. L’arte, capace di sottrarsi all’ombra della comunicazione immersiva, al Kitsch della patina glamour, si offre come occasione di riflessione. L’arte che riesce a scardinarsi dal desiderio confezionato, dalle immagini a domicilio, si fa sguardo. Lo sguardo-attraverso dell’arte produce possibilità, riconfigura il mondo. Opere e pubblico sono invitati a salire per La Scala d’Oro verso il Grande Diletto. Dario Evola
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Le
misure giuste. E che sia per meticoloso progetto o per coincidenza
casuale non influisce sul piacere finale. Ecco, il Premio Borgo
2018 è
risultato particolarmente piacevole: una buona quanlità-quantità di
partecipanti, ventisette, maggiore del solito, una notevole varietà di
tecniche pittorico-illustrative, oli tempere tecniche miste gessetti
legni tele carte stoffe tappi, gioco e passione, lavori proposti in una
grande varietà di dimensioni. Poi, come può accadere, qualche cosa che
partecipa ma non è riconducibile alla ragione. Insomma, tutto questo ha
portato a un’edizione del Premio Borgo particolarmente piacevole e che
ha visto un pubblico votante numeroso: 196 visitatori in dodici giorni
di esposizione. E i visitatori, come la giuria, hanno avuto qualche
difficoltà a scegliere il vincitore: giurati o pubblico, tutti hanno
seminato il voto qua e là, ed è bastato circa il 10% dei voti per
determinare il premio del pubblico e solo due voti su dieci per
determinare quello della giuria. A vederla a posteriori, è la vittoria
dei partecipanti e dell’iniziativa, dove i partecipanti sono tutti, sia
gli autori che i visitatori. Ivana Tartarini ha confidenza con le
piccole cose proprie di chi sa di sartoria, le coglie bene, con
attenzione, e, precisa, le ripropone in foto: dal segno al sogno, le
sue lumachine disarmate e disarmanti convivono col ferro più duro e con
questo si ritrovano, assonanti, nell’armonia della spirale, la magia
della curva mirabilis, la
curva che domina la natura, quella minuta come l’universo infinito
tutto, e la sua foto dai toni tenui si distingue e coglie il premio
della Giuria. Brigitte Kratochwill dipinge su tela e sembra testimone
di una insoddisfatta ricerca che raggiunge l’obiettivo a fatica, il suo
scavo è un continuo sovrapporre colore e, nella proposta specifica per
il Premio Borgo, è il blu il colore, un blu che, segno su segno, lascia
vedere, sognare, il mare. È l’arte contemporanea lontana dalla mimesis
che, inaspettata, rappresenta la realtà al meglio. Certo un blu che
convince molti come convince molti il mare, un blu vivo, mai fermo,
come mai fermo appunto è il mare. Tutto questo da lei che è austriaca e
che, è probabile, ha conosciuto da noi quella distesa mai distesa,
fremente di schiume e colore, come, nella sua proposta vincente per il
pubblico, appare.
Erresse
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La
natura esperibile da un lato,
l’assoluto dall’altro. Il contingente di contro all’universale,
l’eterno, che ricerca le forme dell’“essere”. A un filone
intimistico,
che esprime e interpreta la natura ultima della realtà al di là delle
sue determinazioni relative, cogliendo l’essenza delle cose, si
ascrivono, le forme embrionali dell’essere umano all’interno di “In –
essere” di Maria Santamaria, le fluttuanti figurette antropomorfe di
“Elsewhere” di Christian Pertosa, nonché le “Intime conversazioni” di
EnneEffe Nadia Frasson. In “Silenzio assordante” di Sabrina Missere, al
carattere contrastante e ossimorico del titolo corrisponde la tensione
delle linee diagonali, le quali, come un tessuto, ordiscono lo spazio
dell’opera. Appartengono sicuramente a un filone più “naturalistico”,
seppur risolto con uno stile intimo e soggettivo, “Tramonti e palme
2017” di Elena Savina, “Paesaggi (Calabria) 2017” di Alexandra Savina,
“Le calle di Boltanski” di Ivana Tartarini, la ceramica di Iobea,
l’opera di Lorenzo Ghimenti, “Ressemblage” di Britta Fäth e “Diptychon,
Lumieres de solidarité” di Helga Maria Bonenkamp. In questi lavori, la
natura non è mai frutto di una pedissequa emulazione del vero, ma è
“espressione” dell’intimo sguardo dell’artista. Pur giungendo a una
rappresentazione di ciò che è al di là dell'esperienza sensibile, i
lavori di Paolo Brasioli “FisMetaFis chair SE17 06°”, di Gabriele Ronco
e di Monica Celestino partono, invece, dal dato fenomenico per astrarlo
e sospenderlo nel tempo e nello spazio, fino a renderlo imperituro,
immortale. Se, inoltre, “Acqua, fonte di vita, un miraggio per molti”
di Ester Giacalone Abeile e l’opera di Anna Erario posseggono un
carattere più visionario, a tratti quasi surreale, gli acrilici di
Marilena De Matteo, Italia Cerboni, Maria Teresa Nannerini e “La
Fatascienza di Moma, Un Villaggio” di Monica Trapletti sono figli di un
comune linguaggio, caratterizzato da cromie accese, in aperto dialogo
con le forme geometriche pure, che realizzano immagini tendenzialmente
astratte, attraverso rapporti ritmici fra luce, colore, segno e
movimento. Una menzione particolare meritano, infine, i vincitori del
Premio Borgo 2017. Nel lavoro di Evelyne Baly, i diversi gradienti del
bleu e dell’azzurro, del rosato e del bianco, evocano una
rappresentazione celestiale, in grado di travalicare i limiti della
realtà sensibile e trascinarci in una “dimensione altra”, intriso di
una “spiritualità laica”. Federico Heidkamp descrive per contro una
realtà urbana, attraverso una trama di linee ortogonali e orizzontali
realizzate con la china, parzialmente obliterate dal bruno del caffè
versato sulla carta. Caffè che, in un gioco capzioso tra realtà e
finzione, entra a far parte dell’opera stessa, avvolgendo, nascondendo
e svelando pian piano e timidamente l’incorruttibile bellezza della
Città Eterna.
Serena
Di Giovanni
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Settembre 2016, un Premio Borgo all’insegna de ‘Il doppio e l’altro’, alla sua quarta edizione, propone lavori tutti ben composti per tecnica e creatività. Quanto poi attinenti al tema indicato è un dubbio costante: non legheremmo il termine ‘artista’ alla possibile assenza di argini, argini che questa arte che oggi ci accompagna non segue nell’indirizzo e neppure nella tecnica, e così è anche nella proposta articolata che forma il nostro Premio. Al concorso aperto a tutti, per la prima volta partecipano stranieri: benvenuti! Due le settimane di esposizione al pubblico delle opere presso La scala d’oro, centocinquantotto i visitatori votanti e sei i giurati, due le opere vincenti: per il pubblico ‘Intime conversazioni’, fotografia di Nadia Frasson e per la giuria ‘Metamorfosi’, dipinto di Giuliana Silvestrini. Giuliana Silvestrini, analitica nella sua matrice scientifica, propone due momenti di una ben più numerosa e articolata serie di passaggi che ha raccolto sotto il nome Metamorfosi, perché, ci dice, è ‘Ovidio sull’origine del mondo che mi ispira’: segni spontanei, un ‘tessuto grafico-caotico’, forme informi cariche d’energia, primi ‘nuclei di un processo creativo’ prodromi di un racconto pittorico. Oggettivamente una ricerca attenta come è nella natura di una biologa ben trasferita nel mondo dell’arte, così bene da ottenere consensi non solo dalla nostra giuria ma anche altrove. Nadia Frasson è l’accuditrice, pelle sangue e saliva, è la cura che affronta l’ignoto sostenuta da tradizione e amore. Mostra la fatica della mente, che è frattura, e trattiene le parti con una salda cucitura d’altri tempi, con l’ago giusto che non lacera l’immagine e il filo giusto che rinsalda le parti: c’è l’aulico gesto del cucire, ricucire, rammendare se non ammendare o emendare delle nostre nonne. Non dimentica le bende, sempre linde ma qui nere testimoni del male a incorniciare, fasciare, la proposta. È la fotografia di oggi, non più documento ma materia base da elaborare per comunicare. Il messaggio mediato è palese e il pubblico l’ha ben ricevuto. Due percorsi, due tecniche, due risultati, una progressione proposta con due dipinti a olio su tela da Giuliana e una progressione proposta con due foto da Nadia: anche la comunicazione visiva più statica sembra non possa tralasciare il tempo, che il cambiamento giustapposto sottintende: né l’una né l’altra delle due premiate hanno saputo sottrarsi a questo divenire che risulta una malia o uno scongiuro, forse coscienti che chi fa scienza oggi ci avverte che il tempo è cosa nostra, di noi umani, e le leggi dell’universo ne sono prive. Erresse
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Il
tema che ha ispirato l’edizione 2015 del Premio Borgo è quello
dell’equivoco. Equivocando è l’invito rivolto dalla galleria
romana La
scala d’oro agli artisti partecipanti. Si tratta in realtà di qualcosa
di molto serio nella apparenza del gioco. Ma si sa che quello dell’arte
è il gioco più serio. Fra le molteplici attività dell’uomo, l’arte è
certamente quella che scaturisce dalla libertà e dalla volontà
dell’agire umano alla ricerca del piacere, del bello sensibile e
dell’intelletto. Equivocando si può intendere come un percorso, come
una delle modalità creative fondata su una consapevolezza. La
consapevolezza è quella del rapporto che si instaura fra l’opera d’arte
e la comunicazione. La dimensione del contemporaneo è dominata dal
processo della comunicazione immersiva. Si tratta in questo caso di una
esperienza totalizzante, non solo per quanto riguarda la produzione
dell’immagine, ma anche per quanto riguarda i comportamenti e le
relazioni. L’horror vacui che la persistenza delle immagini determina,
nella sensibilità e persino nei comportamenti quotidiani, fa si che lo
statuto dell’immagine, moltiplicato all’infinito, produca processi
identitari e fortemente omologanti. Basti pensare alle pratiche
compulsive del selfie dello scambio di immagini autoreferenziali nel
circuito dei mezzi di socializzazione tecnologiche. Questo infinito
processo compulsivo di produzione e di scambio continuo, 24 ore al
giorno, di immagini produce un effetto di omologazione e di riduzione a
un senso unico linguistico comportamentale. Caratteristica del
linguaggio e della ricezione artistica è piuttosto la polisemia. Detto
più chiaramente, il senso poetico di una parola è quello caratterizzato
dalla massima apertura di senso e di significato, la sua ricchezza
polisemica. Il segno poetico, come quello artistico, è quello che non
va in un’unica direzione ma che, piuttosto, si apre verso una polisemia
combinatoria. In fondo possiamo dire che più l’espressione artistica
“equivoca”, più essa si “apre” a possibilità interpretative ed emotive.
In arte non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Il piacere estetico
risiede in questo fondo di verità. Il mero processo di comunicazione
prevede il passaggio da un mittente a un destinatario attraverso segni
variabili solo secondo regole che formano il codice e che sono
condivise da emittente e destinatario. questa la regola perché si
soddisfi la condizione della comunicazione. La comunicazione è una
dinamica interpretativa guidata dagli elementi invariabili: mittente,
destinatario, messaggio, codice, canale, contesto. Su questo percorso
sono impiantate anche le funzioni diverse della comunicazione.
Tra queste certamente la più imprevedibile è quella definita “poetica”.
Si tratta di una funzione particolare che può essere assimilata a
quella artistica . La funzione poetica venne definita da Sklovskij,
negli anni Venti del Novecento, come quella che “cambia le insegne”,
che sovverte le regole costituite dal mondo della comunicazione
ordinaria. Anche per l’immagine vale la stessa riflessione. Una
immagine artistica è tale per la sua autonomia, per la sua
autoreferenzialità, come fa notare Wittgenstein. Solo a partire da
questa consapevolezza è possibile intervenire con varianti infinite.
Nessuno potrà scambiare le mele di Cézanne per le mele del supermercato
o della pubblicità, proprio perché quelle mele appartengono a un codice
di comunicazione il cui orizzonte è più “aperto” possibile.
(continua nella colonna a destra)
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(continua dalla colonna a sinistra)
Nell’universo dell’estetica diffusa e compulsiva lo statuto dell’arte è
ambiguo. Esso si colloca in equilibrio nell’equazione perfetta tra arte
e mondo, non si legge più differenza o trascendenza. Solo un gioco
speculare con il mondo contemporaneo così come esso è. Equivocare
scombina le regole della percezione. L’oggetto artistico contemporaneo
può essere scambiato per un normale oggetto d’uso quotidiano , e …
viceversa! Almeno da Duchamp in poi. Il gioco serio dell’arte consiste
nella coscienza dell’equivoco. La velocità del contemporaneo corre il
rischio della omologazione e della “sparizione del reale”. Per
paradosso possiamo affermare che solo il gioco equivoco della funzione
artistica può smascherare il processo di omologazione del reale e della
sua comunicazione univoca. Guardare un’opera d’arte non significa
identificare le relazioni stabilite fra l’oggetto e la sua
rappresentazione, piuttosto si tratta di percepire le potenzialità di
apertura verso il possibile che il dispositivo artistico ha messo in
campo. Vedere un’opera d’arte è un“guardare attraverso”. L’invito a
equivocare per “guardare attraverso” è stato accolto così dagli artisti
partecipanti. Debora Sorrenti con The end of beginning, La fine dell’inizio (Primo premio giuria)pone un apparente monocromo granulare giocando su un doppio equivoco: la foto di un edificio abbandonato è ricoperta, “rivestita” dal processo pittorico. Pigmenti e resine come materiale industriale alterano la percezione fotografica del reale. I colori, gli elementi cromatici, sono usati e percepiti come non colori pur consistendo di una molteplice varietà di sfumature. Ma l’equivoco è anche nella definizione di fine/inizio come accade per i momenti della vita. Gli elementi non figurativi compongono una figura. Melissa Pitzalis con Rimembra (secondo premio giuria) propone una testa, una scultura in travertino. Apparentemente si tratta di una composizione figurativa nella via tradizionale. In realtà si tratta di una forma iniziale, una scheggia simmetrica che suggerisce la forma visiva. Pietra viva con le sue porosità materiche che si assimilano alle concrezioni del corpo. Si scambiano in chiasma visivo materiale organico e materiale inorganico, i muschi, sono materia ambigua equivoca che rimanda a una carnalità che, tuttavia, sappiamo esistere come immagine. Rimembra è gioco linguistico allude a una ricomposizione delle membra ma anche al ricordare. Laura Felici Conti con Orme nel deserto (premio del pubblico) esprime attraverso una figuratività decisa il gioco interpretativo fra vedere l’immagine figurativa e il dispositivo pittorico. La donna velata in realtà procede in modo equivoco: la fisicità inequivocabile del corpo è messa in questione da una eterea dimensione del cammino. Un cammino che non lascia orme ma che è presente come segno. Il segno del cammino risiede paradossalmente non nell’orma ma nella sua assenza, per presentificare un corpo che percepiamo solo attraverso la sua velatura, che ci invita ad essere “svelato” come per il mistero del suo cammino. Dario
Evola
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È
un premio di arte contemporanea e il contemporaneo è difficile da
afferrare, da catalogare secondo tendenze, classificazioni,
giudizi o
interpretazioni.
Le opere esposte nella galleria “Punto Estatico”, opere che partecipano al premio Borgo 2011 a Roma, si presentano diverse l’una dall’altra. Possiamo soffermarci su un bian- co e nero con un teschio che appoggiato in basso a destra in uno spazio indistinto dialoga con un albero morto e arti- glioso, illuminato da un bagliore improvviso e “le due cose assenti” sono richiamate da un vortice muto. Anche un'altra opera sembra alludere a “cosa c’è al di là”, a “cosa ci sta sotto”: una grata di ferro traforato lascia intravedere delle immagini che sono foto in bianco e nero; il gesto del- l’alzare la grata per vedere meglio chi o cosa le immagini rappresentino è ostacolato dalla grata stessa che in modo rigido difende o imprigiona le figure sottostanti. Una messa a fuoco ulteriore coglie da dietro la grata presenze e sguardi che a propria volta chiedono di essere liberati. Un rombo-quadrato suddiviso all’interno in quattro cam- piture di colore diverso ospita in ogni riquadro, come una scrittura su differenti materiali colorati sempre lo stesso motto in greco: conosci te stesso. Sono incisioni, graffiti che nella loro essenzialità e semplicità sopportano il peso di un detto che in tutta la propria complessità vuole arri- vare a chi li sta osservando. C’è ancora un disegno a matita che incastra in riquadri diversi natura e paesaggio (frutta – alberi – acqua – qual- che edificio – una foglia posata a terra): una natura morta dal sapore un po’ scolastico. Anche un altro piccolo formato di un paesaggio a colori spicca per la propria naivetè. È un lavoro minuzioso, non improvvisato: si può cogliere un amore per la pittura come arte artigianale. C’è infine un monocromo che potrebbe risultare tra tutte le opere quella più intensa, più densa ed espressiva. Come se ci trovassimo a considerare un quadro che è un tas- sello d’intonaco grezzo bianco sporco, materico quindi, informale con tracce di spatola, granulosità e spruzzi di colo- re: il tutto bianco su bianco. Questa materia anche se potreb- be essere assimilata ad uno “scarto” è materia viva che non si presta a possibilità di raffigurazioni definibili o definite. Si dà così come la si coglie e si coglie qualcosa dell’inconscio. lo sguardo può assorbire in modo sensibile e vibratile sia il senso di delicatezza sia il sentimento di agitazione ed inquietudine. Non siamo obbligati ad inter- pretare: l’opera funziona “così come è”. Dentro l’opacità fisica del monocromo possiamo avvertire leggerezza ed evocatività. Leonardo
Albrigo
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